Corte costituzionale, 17 ottobre 2024 (ud. 24 settembre 2024), sentenza n. 162, Pres. Barbera, Rel. Viganò
Segnaliamo ai lettori l’avvenuto deposito della sentenza n. 162 del 24 settembre 2024, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale parziale dell’art. 14 comma 2 ter, D. Lgs. 159/2011 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136) nella parte in cui prevede che in caso di sospensione dell’esecuzione della sorveglianza speciale nel periodo in cui l’interessato è sottoposto a detenzione per espiazione della pena, il Tribunale verifica la persistenza della pericolosità sociale solamente ove lo stato di detenzione si sia protratto per almeno due anni.
Con ordinanza del 14 dicembre 2022, il Tribunale di Oristano aveva sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 14 comma 2 ter, D. Lgs. 159/2011, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 13, primo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione.
Il Giudice di prime cure è stato chiamato a decidere sulla contravvenzione, prevista dall’art. 75, comma 1, cod. antimafia, di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale, contestata a una persona sottoposta a tale misura di prevenzione dopo che la stessa misura era restata sospesa per più di anno, a causa dello stato di detenzione dell’interessato per esecuzione di pena.
Il Rimettente dubita sulla compatibilità tra la Costituzione e la disposizione censurata nella parte in cui esclude l’obbligo di rivalutazione della pericolosità sociale dell’interessato, da parte del tribunale che ha adottato la misura di prevenzione, nell’ipotesi in cui l’efficacia del provvedimento sia stata sospesa durante il tempo in cui l’interessato è stato sottoposto a detenzione per esecuzione di pena per una durata inferiore a due anni.
Si tratterebbe, infatti, di una presunzione di persistenza di pericolosità sociale, peraltro smentita con la sentenza n. 291 del 2013 dalla stessa Corte costituzionale, in materia di misure di sicurezza e successivamente ribadita dalla più recente giurisprudenza, la quale ha inteso valorizzare sempre più il requisito dell’attualità della pericolosità sociale.
Più in particolare, il Giudice a quo, evidenzia un ingiustificato trattamento differenziato, contrario al principio di uguaglianza di cui art. 3 Cost., comma 1, tra soggetti destinatari delle misure di prevenzione e di sicurezza, in ragione del fatto che le prime, al pari delle seconde, sono finalizzate a «prevenire la commissione di reati da parte di soggetti socialmente pericolosi e di favorirne il recupero all’ordinato vivere civile».
Sul punto viene ricordata la legge 10 ottobre 1986, n. 663, c.d. “legge Gozzini”, che, in primo luogo, ha abrogato l’art. 204 c.p., nella parte in cui prevedeva una presunzione di pericolosità sociale quale requisito ai fini dell’applicazione delle misure sicurezza, ed in secondo luogo ha introdotto il principio secondo il quale tutte le misure di sicurezza personali dovessero essere attuate solo a seguito di accertamento sull’effettiva sussistenza della pericolosità sociale del soggetto interessato. Tuttavia, nulla si diceva sul momento in cui dovesse essere operato l’accertamento de quo, se lo stesso, cioè, dovesse essere effettuato esclusivamente nel momento di adozione della misura, ovvero se dovesse procedersi, in caso di esecuzione differita, con l’accertamento anche nel momento dell’esecuzione. Si è infine potuti giungere a un punto di svolta con l’avvento del nuovo codice di procedura penale, il quale all’art. 679 prevedeva e prevede che: «quando una misura di sicurezza diversa dalla confisca è stata […] ordinata con sentenza, o deve essere ordinata successivamente, il magistrato di sorveglianza, su richiesta del pubblico ministero o di ufficio, accerta se l’interessato è persona socialmente pericolosa».
Nella sentenza in commento, la Consulta, richiamando quanto già stabilito nella sentenza del 2013, ha chiarito che, fatti salvi i casi in cui la misura di sicurezza venga direttamente disposta dal magistrato di sorveglianza, l’accertamento deve essere eseguito in due distinti momenti: dapprima dal Giudice di cognizione, e – successivamente – in caso di esecuzione differita, dal magistrato di sorveglianza, al fine di garantire l’attualità della pericolosità sociale. Tale disciplina, come puntualmente sottolineato dai Giudici delle leggi, deve essere estesa anche alle misure di prevenzione, le quali risultano accomunate alle misure di sicurezza «dalla finalità di prevenire la commissione di reati da parte di soggetti riconosciuti socialmente pericolosi». La presunzione di pericolosità, infatti, prosegue la Consulta, risulterebbe da un lato intrinsecamente irragionevole e dall’altro «foriera di un’irragionevole disparità di trattamento rispetto alla parallela disciplina oggi applicabile alle misure di sicurezza». Quanto al primo aspetto, poiché non v’è ragione di ritenere che nell’arco di un biennio, l’attitudine e la personalità del detenuto non possano subire significative modificazioni, avendo ad oggetto un trattamento specificamente finalizzato alla rieducazione ed alla risocializzazione del destinatario della misura.
Sotto il secondo profilo, invece, la Consulta, riportandosi a quanto affermato dalla sentenza n. 24 del 2019, ha ricordato la comune finalità che riguarda le due misure, vale a dire il controllo della pericolosità sociale del soggetto che vi è sottoposto.
La disciplina censurata è inconciliabile altresì anche con l’art. 13 Cost., il quale sancisce che le restrizioni della libertà personale possano intervenire «per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge»; ciò presuppone dunque un accertamento caso per caso da parte dell’organo giudicante, ma soprattutto un accertamento che intervenga preventivamente o quantomeno entro novantasei ore dal momento in cui la restrizione ha avuto inizio.
Infine, la Corte costituzionale ha dato atto del contrasto tra la disciplina de quo e l’art. 27, terzo comma, Cost., il quale sancisce la finalità rieducativa della pena. «Se è vero, infatti» afferma la Corte, «che il successo di un trattamento rieducativo non è mai scontato, la presunzione legislativa in esame muove dal non condivisibile presupposto che un trattamento penitenziario in ipotesi protrattosi fino a due anni sia radicalmente inidoneo a modificare l’attitudine antisociale di chi vi è sottoposto». Se così fosse, qualsiasi pena detentiva di breve durata si porrebbe in contrasto con il summenzionato articolo.
Dunque, per i Giudici delle leggi il nostro ordinamento non può che presumere l’idoneità, ai fini della rieducazione del reo, di tutte le misure restrittive di durata anche inferiore ai due anni; il che implica la necessità di procedersi ad una verifica caso per caso della persistenza e dunque dell’attualità del requisito della pericolosità sociale, una volta cessato lo stato detentivo, ovvero ad una verifica che accerti il raggiungimento della finalità rieducativa.
Per concludere – la Consulta – a sostegno delle motivazioni argomentate dal rimettente, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma censurata limitatamente all’inciso «se esso si è protratto per almeno due anni», importando quale diretta conseguenza, l’onere in capo al Tribunale di procedere alla verifica anche d’ufficio della persistenza della pericolosità sociale del condannato. La misura è pertanto da considerarsi sospesa fino ad allora e le prescrizioni non possono avere effetto. Resta tuttavia ferma per il Tribunale la possibilità di omettere la rivalutazione qualora la misura di prevenzione sia stata adottata nell’imminenza della scarcerazione dell’interessato.
Sarah Fresu